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La fine del lavoro

Carmine Valente

 

A partire dalla fine degli anni ’70 il costante progresso tecnico, proprio del moderno sviluppo industriale  che rendeva sempre più velocemente obsolescenti le macchine iniziò ad essere rivoluzionato dai processi informatici che sembravano dovessero aprire un rapido ed ininterrotto periodo di sostituzione di forza lavoro viva con macchine robotizzate. A sinistra, in particolare in quella  più radicale, iniziò a prendere corpo la teoria della fine del lavoro, con tutti i suoi corollari della fine della centralità operaia, della fine della stessa centralità della forza lavoro come soggetto antagonista, della stessa obsolescenza  della lotta di classe. Teorie che specularmene trovavano sponda nelle argomentazioni del riformismo moderato  là dove si affermava che la contrapposizione di classe non rappresentava più il tratto caratteristico dei rapporti tra capitale e lavoro, essendosi determinata oramai nelle nostre società a  capitalismo avanzato una  contrazione del lavoro dipendente  ed una espansione sempre maggiore di ceti medi inglobando in questi,  attraverso un discutibile procedimento di extrapolazione, quei settori di lavoro dipendenti non più legati al puro lavoro manuale, ovvero quei soggetti  non più produttori di beni ma semplici gestori di flussi informativi, caratteristica questa che di per se dovrebbe allontanarli da una prospettiva di classe.
 Le argomentazioni sulla fine del lavoro poggiano quindi su due presupposti, uno quantitativo ed uno qualitativo. L’aspetto quantitativo, che è quello che cercherò di discutere nella parte centrale di  questo articolo, poggia sul presupposto che la forza lavoro occupata nei processi produttivi sia materiali, produzione di beni, che immateriali, produzione di servizi sia destinata ad una contrazione oramai storicamente definita.
La  descrizione dell’aspetto qualitativo invece, come sempre accade quando si parla della formazione economica-sociale del capitalismo, intreccia  categorie economiche e categorie morali.
Il primo elemento di confusione è quella di legare lo sfruttamento della forza lavoro al solo lavoro operaio, ovvero al lavoro direttamente produttrice di beni, dimenticando due fondamentali aspetti; primo che lo sfruttamento è dato dall’appropriazione del plus-valore e non da un misero salario, così posto definiremmo una categoria morale; secondo che l’appropriazione del plus-valore, ovvero la valorizzazione del capitale, avviene ogni qualvolta il capitalista, attraverso l’uso della forza lavoro di un qualsiasi prestatore, anche intellettuale, riesce a creare un processo che gli rende il denaro investito, che solo in questo caso possiamo definire capitale,incrementato: cioè lo valorizza.
Quello che scolasticamente è sintetizzato nella formula D-M-D1, dove l’intermedio M sta per merce, ma nella sua accezione più ampia di entità economica e non di semplice  bene materiale .  IL medico libero  professionista dal suo lavoro ricava un reddito che utilizza per i propri consumi, in quanto tale non è né un capitalista né uno sfruttato, mentre il medico che lavora presso una clinica privata con il suo lavoro (servizi medici), l’M della formula, è il prestatore d’opera che il capitalista, il proprietario della clinica, utilizza per valorizzare il capitale investito. Ciò, al di là del personale posizionamento ideologico, determina che la  condizione del medico all’interno della struttura produttiva è quella di un lavoratore dipendente, forse o certamente privilegiato, ma dal punto di vista economico uno sfruttato.Il proprietario della clinica di converso sia esso un puro imprenditore  o a sua volta un medico,  all’interno del processo che determina la valorizzazione del capitale, è un capitalista.
 Alla luce di  processi di valorizzazione del capitale che attraggono sempre più funzioni della società nei propri meccanismi, mercificando ogni rapporto sociale: l’istruzione, la cura dell’infanzia  e della vecchiaia, il divertimento, la cultura, lo sport, possiamo affermare che sempre più vasti settori di lavoro cadono sotto il dominio del capitale, compresi tutta una serie di lavori autonomi e professionali che pur formalmente fuori dal ciclo di valorizzazione del capitale sono di fatto al pari del lavoro dipendente gerarchicamente subordinati al padrone capitalista e strumenti di accrescimento del profitto, spesso con condizioni reddituali e di tutela inferiori allo stesso lavoratore dipendente. Ci riferiamo qui a tutta quella nuova e falsa imprenditoria fatta da lavoratori espulsi dalla produzione ma che continuano a fare lo stesso lavoro che facevano in fabbrica: imprese di pulizia, manutentori, carpentieri metallurgici, spesso solo ed esclusivamente con un solo committente che anziché averli a busta paga stabilisce con loro un rapporto regolato da un contratto commerciale legato alla prestazione; formalmente questi lavoratori non vendono  più la loro forza lavoro non rimanendo così subalterni e vincolati al padrone al quale va tutto il prodotto derivante dall’azione e utilizzo della loro forza lavoro, non vendono  il loro corpo, ma vendono, in un rapporto di fatturazione il prodotto del loro lavoro, formalmente saremmo in presenza ad un grado di libertà maggiore rispetto al lavoratore dipendente, ma ciò solo nell’astrattezza dei rapporti giuridici, nella realtà la sottomissione al comando capitalista di questi lavoratori autonomi,  legati ad un unico committente,  toglie loro qualsiasi possibilità di gestire il proprio lavoro, dipendendo di fatto dall’impresa per cui lavorano, senza peraltro avere quella rete di protezione dei diritti che seppure sempre più compressi ancora riescono ad avere i lavoratori dipendenti. Analogamente avviene per i finti professionisti che hanno rapporti di commissione con  strutture industriali private o grandi  enti pubblici e privati dove prestano la loro opera all’interno di un rapporto subordinato senza alcuna autonomia operativa e tecnica, sottoposti allo stesso regime di orari dei lavoratori dipendenti. 

Le trasformazioni del mercato del lavoro

Le serie storiche degli occupati per settore di attivita’ economica ci aiutano ad inquadrare i problemi facendo giustizia di preconcette analisi ideologiche.

Tab.1
Italia – Tab. 1
Occupati per settore di attività economica. 1988-2001 (Dati in migliaia)

Anno  Agricoltura   Industria            Altre  Attività   Totale
                                           

              
1988        2.058       6.788               12.256            21.103
1989        1.946       6.753               12.305            21.396    
1990        1.895       6.845               12.564            21.304
1991        1.823       6.916               12.853            21.592
1992        1.749       6.851              12.859             21.459
1993        1.508       6.736              12.183             20.467
1994        1.573       6.587              11.959             20.120
1995        1.490       6.494              12.025             20.010
1996        1.402       6.475              12.211             20.088
1997        1.370       6.449              12.258             20.086
1998        1.339       6.467              12.391             20.197
1999        1.134       6.750              12.807             20.692    
2000                       6.897                                     21.450
2001                       6.885                                     21.698


La tabella 1 mostra come nei 14 anni presi in considerazione l’andamento complessivo degli occupati e’ stato  sostanzialmente statico, oscillando tra i 20 e i 21 milioni di lavoratori, questa situazione di sostanziale invarianza numerica si  riscontra anche nel rapporto tra lavoratori dipendenti e lavoratori indipendenti. Tab.2
Il periodo preso a riferimento e’ sicuramente significativo in quanto abbraccia un arco di tempo durante il quale scoppiettante e’ stato lo sviluppo dell’automazione informatica, cioè il periodo definito come la “terza rivoluzione industriale della microelettronica”. E’ il periodo durante il quale secondo alcuni “per la prima volta la velocità nell’innovazione nei processi e’ superiore a quella dell’innovazione nei prodotti”.
E’ quel periodo durante il quale “ per la prima volta il lavoro che viene cancellato con la razionalizzazione e’ maggiore di quello che può essere riassorbito grazie all’espansione dei mercati.”1
Le cifre che seguono non danno alcun supporto  a queste analisi.

Tab. 2

Anno      Totali Occupati     Dipendenti       Indipendenti

1993            20.466                 14.631             5.835

1994            20.119                 14.362             5.757

1998             20.197                 14.458             5.739

2000             21.450                 15.359             6.091

2001             21.698                 15.651             6.047                                         

I dati segnalano una modestissima crescita dei lavoratori indipendenti alla quale non possiamo certamente assegnare valore di tendenza strutturale, come invece molti autori da anni vanno (predicando) predigendo.
L’incremento dei lavoratori indipendenti ad oggi e’ un dato congiunturale su cui ha inciso ed incide in modo determinante il peso di ex lavoratori dipendenti diventati più o meno volontariamente titolari di partita IVA o collaboratori coordinati e continuativi che lavorano per pochi od unici committenti.
Complessivamente i  dati testimoniano che l’entità del lavoro vivo non sta subendo nessuna sostanziale contrazione, smentendo clamorosamente le argomentazioni tutte ideologiche che disegnano scenari in cui il lavoro, a fronte di spinti processi di informatizzazione dei processi produttivi diventa entità marginale.
Né i dati confermano il  presunto calo del lavoro industriale a seguito di una terziarizzazione dell’economia italiana, infatti non solo gli occupati complessivi  dell’industria rimangono pressoché stazionari nel periodo non breve preso in considerazione, ma la loro composizione interna  evidenzia anche una stabilità nel rapporto tra dipendenti ed indipendenti. Tab.3

 

Tab.3
Occupati nell’industria

  Anno          Totali          Dipendenti                 Indipendenti

1993              6.725                5.519                        1.206
1994              6.587                5.403                        1.184
1998              6.467                5.252                        1.215
2001              6.885                5.335                        1.500 

Nei riguardi degli occupati nell’industria inoltre si deve evidenziare la particolare situazione che si è venuta a determinare con i processi di esternalizzazione di parte del lavoro di fabbrica. Il ciclo integrato della fabbrica aveva al suo interno, e quindi forza lavoro  statisticamente  computata nell’industria, gli addetti alle pulizie, la manutenzione, gli staf tecno scientifici, il magazzinaggio. Oggi, invece, tutte queste componenti sono esternalizzate e statisticamente sono classificate tra la forza lavoro occupata nei servizi, sotto la voce servizi alle imprese. Questi occupati che l’ISTAT raggruppa nei servizi, in realtà funzionalmente possono essere ricollegati all’industria e, come mostrano i numeri, sono in crescita in questi ultimi anni. Tab.4 

   Tab.4

    Anno Occupati complessivi nei
                Servizi alle Imprese
       

  1. 1.070
  2. 1.153
  3. 1.217
  4. 1.478

Se ampliamo il periodo di osservazione grandi trasformazioni, per quanto riguarda l’entità del lavoro, non si sono verificate neppure nell’arco del ventennio 79/99 dove il rapporto tra gli occupati e la popolazione tra i 15 e i 64 anni e’ passato dal 54,2% al 52,5%.2
Fin qui abbiamo visto che la componente lavoro non solo non tende minimamente a diminuire, ma al suo interno rimane significativamente prevalente il numero degli occupati dipendenti.
Se indaghiamo  la distribuzione del lavoro al di là dei  dati aggregati emerge una condizione meno statica di quella che sembrerebbero consegnarci le tabelle.
Infatti tra il 1993 e il 1999 il sistema economico ha creato nuovi posti di lavoro per oltre 1 milione di unità nelle professioni non manuali, quasi esclusivamente in quelle ad alta qualifica, e ne ha distrutti quasi altrettanti nelle professioni manuali.3
Questo “travaso” di lavoro da professioni manuali a professioni non manuali e’ la conferma empirica delle previsioni di autori, come  Paola Manacorda4 , che, nel 1984, cerca di dare una risposta alla domanda: “la fine del lavoro  e’ davvero vicina, e con essa la fine del rapporto di produzione capitalistico, oppure si affacciano nuove forme del lavoro che però lasciano sostanzialmente inalterato quel rapporto?”
Il modello proposto dalla Manacorda e’ quello della clessidra, che sommariamente  possiamo descrivere così: la prima ampolla rappresenta l’insieme dei lavoratori in un sistema non ancora informatizzato che va incontro ad una contrazione del numero degli occupati nella fase di trasformazione tecnologica, la strozzatura della clessidra, la seconda ampolla rappresenta il sistema nel quale la tecnologia ha creato nuovo lavoro.
 Ad oggi questo modello, come abbiamo visto, e’ confermato dai dati.
Il lavoro non ha nel suo futuro l’estinzione, e la duplicità del lavoro, delineato da Marx, tra lavoro che crea valori di scambio e lavoro che crea valori d’uso e’ di una straordinaria efficacia per comprendere il meccanismo di valorizzazione del capitale in quanto spiega che  questo meccanismo non segue alcuna particolare etica produttiva essendo la merce non fine, come nel caso dei valori d’uso, ma mezzo.
La duplicità del lavoro analizzata da Marx ci dice che ogni bene, merce, esprime sia un valore di scambio, sia un valore d’uso, descrivendo semplicemente l’oggettività della produzione capitalista, ed è solo nell’ambito  dei rapporti di produzione capitalista che l’unico valore che caratterizza la merce è quello di scambio, da ciò deriva  anche che per poter agire quale valore di scambio, ogni merce debba necessariamente avere anche uno specifico valore d’uso, ed ogni argomentazione sulla utilità o inutilità del bene, sul condizionamento cultural-pubblicitario al consumo, sono solo considerazioni di carattere morale, spesso foriere di una grigia concezione della società che prevede un luogo ed un qualcuno che decide ciò che è utile e ciò che è inutile. Noi crediamo che solo liberando le merci dalla valorizzazione del capitale si potrà spontaneamente verificare nella concreta quotidianità ciò che ogni individuo singolarmente e ogni individuo sociale necessita per soddisfare i propri bisogni. Per questo riteniamo inquadrabile in queste categorie morali quelle elaborazioni che all’interno del mercato capitalista dividono il lavoro in lavoro astratto, quello che produce valori di scambio, e lavoro concreto, quello che produce valori d’uso.
Per costoro il lavoro astratto si sta contraendo, ed abbiamo visto che ciò non trova riscontro nei dati e in questo non abbiamo avuto bisogno neppure di ricorrere all’argomento che a sinistra solitamente si sviluppa per contrastare tali teorie, cioè quelle dell’espansione del lavoro salariato a livello mondiale, mentre non è contraibile il lavoro concreto, ovvero quello che produce valori d’uso. Tale rappresentazione lascia pensare non solo che questa divisione sia data, ma che all’interno della formazione economica sociale capitalista esiste uno spazio per lo sviluppo del lavoro concreto, svincolato quindi dalla valorizzazione del capitale. In realtà quello che osserviamo è esattamente l’opposto. Ogni merce, sia essa materiale che immateriale, diviene valore di scambio Siamo in presenza di un processo economico che assorbe ogni sfera della vita sociale nell’ambito dei rapporti capitalistici di produzione; quello che viene individuato come processo di mercificazione. La fine del lavoro, venendo meno uno degli attori del conflitto che dalla sua apparizione si e’ contrapposto al capitale, necessariamente significa il superamento della contraddizione tra capitale e lavoro e quindi della lotta di classe. In realtà la contraddizione tra capitale e lavoro, ovvero il nesso che li lega dato dallo sfruttamento del secondo per la valorizzazione del primo, non e’ avviata ad alcun superamento, al contrario ogni rapporto sociale viene mercificato compresi tutti quei lavori concreti,  produttrici di valori d’uso; ne è testimonianza il proliferare di agenzie che prestano servizi alla persona e l’interesse sempre maggiore verso la privatizzazione della scuola e della sanità, con il risultato di un ulteriore ampliando della sfera dei lavori subordinati al profitto capitalista.   
 In questa prospettiva la liberazione dal lavoro, sebbene possa affascinare l’anima adolescente e scanzonata di qualche compagno, è un concetto astratto che non aiuta a far guadagnare di un centimetro la presa di coscienza di classe. Se, invece, nessuno è disposto a predire, anche per una società liberata, la fine del lavoro”tiut-court”, dando per scontato la persistenza di lavoro umano –lavoro concreto-  per la produzione di valori d’uso, appare in tutta la sua lineare evidenza che l’unica prospettiva è la liberazione del lavoro dalla sottomissione al capitale.  

 

1 Manifesto contro il lavoro. Gruppo “Krisis” - Citiamo questo testo non  perché  gli assegniamo un particolare pregio, ma unicamente perché  ci sembra che fornisca una sintesi efficacie delle varie teorie sulla fine del lavoro. Vedere anche: Ricardo Antunes - Addio al  lavoro? Metamorfosi del mondo del lavoro nell’eta’ della globalizzazione. (Biblioteca Franco Serantini pp. 128, euro 10,33)

2 Istat - Le trasformazioni nel mercato del lavoro negli anni Novanta. Rapporto annuale 1999. 

3 Vedi nota 2.

4 Paola Manacorda - Lavoro e intelligenza nell’età  microelettronica. Feltrinelli -1984

 

Da: COMUNISMO LIBERTARIO n. 53 Aprile/Maggio 2002